Lezioni I semestre 2020

Si pubblica il programma della Scuola Forense per il I semestre 2020

programma.Scuola.I.semestre.2020

 

Lezione del 13 novembre 2019. La scuola di formazione forense.

Avvocati Paola Mai e Paolo Doria.

Il relatore ripercorrendo la propria esperienza professionale e didattica ha guidato l’uditorio nella comprensione delle opportunità culturali offerte dalla Scuola di Formazione Forense quale corso specialistico post lauream abilitante.

Obiettivo della Scuola è fornire ai praticanti strumenti indispensabili per la formazione di giuristi di vaglia, specificamente strumenti di metodo per saper argomentare una tesi.

Materie quali retorica forense, tecnica dell’argomentazione, metodologia giuridica, linguaggio giuridico, psicologia giuridica, tipiche del metodo casistico dei sistemi di common law basato sul ragionamento per tesi e antitesi, costituiscono da sempre il patrimonio dell’Avvocatura e devono essere adeguatamente padroneggiate unitamente al diritto positivo. Esse appartengono alla cultura del diritto occidentale la quale trova fondamento nell’opera di Aristotele di cui si alimentano i moderni trattati di tecnica dell’argomentazione, Corace, Tisia, Empedocle di Agrigento i quali erano attivi attorno al 465-466 a.C. a Siracusa.

La loro riscoperta origina da un’indagine svolta dall’Antitrust risalente al 1999 relativa al dovere degli ordini forensi di garantire la qualità professionale e culturale delle prestazioni degli iscritti.

Il Consiglio Nazionale Forense ricostituì in quegli anni il Centro nazionale per la formazione e l’aggiornamento professionale degli avvocati che iniziò le sue attività così come la Scuola di Formazione Forense di Vicenza costituita nel 1999, fondandole proprio sull’attento studio di queste discipline, trascurate tra l’‘800 e il ‘900. L’importanza delle tecniche dell’argomentazione si deve al fatto che nel processo non esiste un concetto di verità (emblematico a tal proposito è il mito della caverna di Platone): il fatto vero potrebbe essere dimostrato falso o non dimostrato affatto in caso di lacuna probatoria. Nel processo, come affermava Calamandrei, si forma il vero giuridico ovvero la quaestio facti sottoposta dalle parti al Giudice che passa al vaglio dell’istruttoria cosicché il ragionamento per tesi e antitesi rappresenta il metodo migliore per analizzare una questione giuridica. Secondo questo metodo non si deve porre mente unicamente alla propria posizione processuale ma anche a quella di controparte ipotizzandone percorso argomentativo, eccezioni, domande riconvenzionali, strumenti probatori. Certo non esiste un procedimento razionale basato sulla logica formale che possa garantire il buon esito di una causa perché, secondo il principio habent lites sidera sua, essa sfugge ad una prognosi assoluta potendo intervenire delle vicende imprevedibili che ne spostano completamente il destino. Consapevole di ciò, assunto l’incarico in una causa, secondo quanto affermato anche da Chaïm Perelman, autore del “Trattato dell’argomentazione”, l’avvocato deve trovare nel giudice un accordo sulla tesi del proprio assistito. Egli deve dimostrare cioè che la propria tesi passa attraverso il vaglio istruttorio di fondatezza almeno a livello di verosimiglianza probatoria e resiste alla prova di confutazione della controparte. Proprio per poter fare ciò il giurista, oltre ad avere un’attitudine per l’argomentazione e ad avere la padronanza dei relativi strumenti, deve essere talentuoso, possedere una predisposizione naturale allo studio non soltanto del diritto, deve essere dotato di memoria, incline alle relazioni umane e disposto ad un grande sacrificio personale improntato su un processo costante di autoformazione. Gli avvocati sono come degli storici che ricostruiscono una fattispecie e la sottopongono al vaglio critico di un sistema normativo allo stato complicato da un processo in essere di decodificazione. Devono padroneggiare un sistema di regole metodologiche ma anche di diritto positivo estremamente complesso e devono saper trovare soluzioni innovative rispetto alle questioni giuridiche poste alla loro attenzione in un contesto sociale in continua evoluzione. Nel ricordare ciò il relatore, esortando alla lettura, ha consigliato la consultazione oltre ai codici e ai manuali, di testi indispensabili per gli approfondimenti normativi la cui necessità si impone dato l’attuale contesto di frammentazione delle fonti; ha ribadito l’importanza della consultazione costante delle riviste di giurisprudenza la quale consente un aggiornamento in merito agli orientamenti delle corti di merito e di legittimità e anche l’apprendimento del linguaggio giuridico e della terminologia tecnica; ha suggerito ai praticanti la lettura di testi per imparare a scrivere un elaborato giuridico. Infatti scopo della Scuola di Formazione Forense di Vicenza è proprio quello di formare giuristi dotati di adeguati strumenti metodologici fornendo i mezzi per sviluppare tali abilità al fine di innescare in loro un processo di autoformazione continua.

 

Lezione del 20 novembre 2019. Un caso pratico di diritto penale.

Avv. Marco Antonio Dal Ben

Si pubblica la traccia che sarà oggetto della lezione:

traccia lezione avv. Dal Ben.20.11.2019

La lezione svoltasi in data 20.11.2019 ha avuto ad oggetto l’analisi di un caso di diritto penale proposto dall’Avvocato Marco Dal Ben e risolto con la sua guida.

Alla luce degli elementi di fatto e di diritto presenti nella traccia e assunte le vesti del difensore di Tizio, indagato, si è innanzitutto svolta una ricognizione circa la disciplina normativa delle misure cautelari in ambito penale, rammentandone l’ontologia e i presupposti.

Premesso che con esse si mira ad evitare compromissioni nell’esplicazione dell’attività giudiziaria, si è operata una distinzione tra misure cautelari personali (coercitive e interdittive) e misure cautelari reali, evidenziando come Tizio sia stato interessato da una misura cautelare personale coercitiva, essendo lo stesso stato tradotto nella casa circondariale di Milano-Opera per aver distratto cospicue somme di denaro dal capitale sociale della propria impresa, a suo dire al fine di pagare le imposte dovute dalla società stessa.

Si sono poi passati in rassegna quelli che sono i presupposti per l’erogazione di tali misure, e in particolare: la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in capo all’indagato, la presenza di esigenze di natura cautelare (quali quelle di evitare un eventuale fuga del soggetto, un inquinamento delle prove etc.) e il risultato di una valutazione in ordine al fatto che tutte le altre misure non siano idonee per far fronte alle necessità che si pongono.

Passando poi all’analisi della condotta posta in essere da Tizio, l’Avvocato Dal Ben ha focalizzato la nostra attenzione sulla eventuale natura distrattiva dell’operazione compiuta dall’indagato, il quale potrebbe anche aver disposto in modo così atipico dei beni societari, versando milioni di euro a un sedicente commercialista per gli adempimenti tributari, per perseguire, in realtà, finalità che esulano dal perseguimento dell’interesse sociale.

In questo senso, si è ribadita la necessità per il difensore di essere sempre pienamente informato riguardo tutti gli elementi della vicenda, anche nel caso in cui sia lo stesso cliente a essere reticente nel riferirli, e ciò al fine di poter impostare una difesa completa ed efficace.

A titolo di esempio, sarà dunque opportuno chiedere a Tizio se la sua condotta è stata reiterata nel tempo, che vantaggio si aspettava di trarre da essa, che rapporti intercorressero tra lui e il professionista e quale sia la documentazione a supporto della sua ricostruzione. Si dovrà poi tentare di comprendere se, sia alla luce di quanto previsto a livello normativo, sia delle prassi commerciali, la condotta di Tizio abbia o meno una sua intrinseca “logicità”, se vi siano cioè dei motivi validi per cui lo stesso si è determinato a pagare le imposte senza seguire i canali tradizionali.

Fatte queste premesse, ci si è chiesti quale contestazione possa essere mossa a Tizio e si è concluso come allo stesso possa essere addebitata una responsabilità per “Indebita compensazione”, fattispecie sanzionata dall’articolo 10 quater del D.lgs. 74/2000, per mancato versamento delle imposte.

Trattandosi di reato tributario, si ipotizza venga disposta anche la misura cautelare reale del sequestro per equivalente finalizzato alla confisca. Tale sequestro potrà colpire non solo i beni di cui l’indagato sia effettivo titolare, ma anche quelli di cui abbia quotidianamente la disponibilità (es. beni del coniuge).

Da ultimo, sotto un profilo prettamente processuale, ci si è chiesti quali sviluppi della vicenda si possano prospettare, sottolineando come sia indispensabile che il difensore offra al cliente una panoramica trasparente ed esaustiva in merito. Percorrendone le scansioni temporali, ci si è in particolare soffermati sull’interrogatorio di garanzia, per ricordare come ad esso l’Avvocato debba arrivare preparato, avendo lo stesso a disposizione anche gli atti del GIP e del PM, e su una eventuale contestazione dell’ordinanza con cui sono state disposte le misure. In relazione a questo ultimo punto, si è in particolare evidenziato come sia, generalmente, più conveniente chiedere una revoca/sostituzione della misura allo stesso GIP, che non un riesame al competente Tribunale, e ciò al fine di evitare un effetto di “consolidamento” della misura in termini di durata.

 

 

Lezione del 27 novembre 2019. Omicidio stradale e dintorni.

Avv. Rosario Tucci

Il tema trattato dal relatore è frutto di una modifica legislativa del 2016 ed oggetto di assestamenti dottrinali e giurisprudenziali.

Con la legge 23 marzo 2016, n. 41 sono stati inseriti nel codice penale i seguenti articoli:

art. 589 bis. Omicidio stradale; art. 589 ter. Fuga del conducente in caso di omicidio stradale; art. 590 bis. Lesioni personali stradali gravi o gravissime.

Questa legge è il punto di arrivo di un assetto anche giurisprudenziale che ha portato il legislatore a sentire l’esigenza di creare un corpus normativo composito partendo da una valutazione in ordine a due aspetti: l’aspetto che attiene all’accertamento del profilo della causalità e l’aspetto relativo alle valutazioni che riguardano l’elemento soggettivo del reato.

Dal 2001 in poi è nato un fermento a livello di opinione pubblica in ordine alla risposta empatica negativa rispetto a vari episodi di sinistri stradali con esiti infausti.

In giurisprudenza a fronte di determinate condotte considerate estremamente gravi si è ritenuto di discostarsi da un orientamento che sembrava consolidato nel senso dell’attribuzione di una responsabilità di tipo colposo e di configurare il fatto usando la struttura e il contenitore del dolo eventuale con le conseguenze del caso anche dal punto di vista assicurativo.

Il relatore ha indicato alcune sentenze per comprendere il trend che si era delineato in casi di particolare gravità:

Cassazione penale, sezione Feriale, 31 ottobre 2008, n. 40878: in questa sentenza la Cassazione ha riconosciuto la responsabilità per dolo eventuale.

Casi gravissimi venivano valutati attraverso il concetto e la struttura del dolo eventuale, altri casi rientravano all’interno della fattispecie colposa di cui all’art. 589 c.p. nella formulazione vigente fino al 2016.

È intervenuta poi la sentenza del cosiddetto caso Thyssenkrupp: Cassazione Penale, Sezioni Unite, 18 settembre 2014, n. 38343: con questa sentenza la Cassazione a Sezioni Unite ha demolito il trend consolidato in ordine alla natura colposa o dolosa di determinate situazioni penalmente rilevanti e ha destrutturato il concetto del dolo eventuale.

Si è valutata con maggiore pregnanza e attenzione l’applicazione dell’istituto del dolo eventuale nell’ambito della circolazione stradale dando una maggiore valenza alla natura colposa del reato.

Cassazione penale, sez. IV, 10 Aprile 2014, n. 24612 del 2014: questa sentenza ha ricondotto l’ipotesi del dolo eventuale nell’ambito della circolazione stradale a ipotesi di particolare gravità (ad es. manovre di soprasso in curva, inserimento in contromano in autostrada).

Cassazione penale, sez. IV, 5 giugno 2018, n. 41350: è da tenersi in considerazione anche se fa riferimento alla vecchia formulazione dell’art. 589 c.p. prima dell’introduzione dell’omicidio stradale, per i riflessi in ordine all’assetto normativo.

La Corte vi ha delineato il concetto di colpa specifica e colpa generica all’interno della fattispecie dell’omicidio colposo riconoscendo che esiste colpa specifica quando vi è violazione di una specifica norma ricondotta all’interno del codice della strada e ha riconosciuto la possibilità della colpa generica nell’ambito della circolazione stradale. Qualora vi sia solo colpa generica il soggetto risponderà ai sensi dell’art. 589 comma 1 (omicidio colposo) e non della fattispecie aggravata di cui alla circolazione stradale. La Corte ha affermato anche che l’art. 140 Codice della strada prevede una serie di attenzioni prudenziali che l’utente della strada deve porre in essere, motivo per cui molti comportamenti che non sono in violazione di una norma specifica (ad es. omessa precedenza, velocità eccessiva) possono essere ricondotti all’interno della fattispecie dell’art. 140 con riferimento quindi alla colpa specifica. Questa sentenza della Cassazione è importante inoltre per capire se è configurabile una colpa specifica per violazione di norme del Codice della strada anche in capo ad un soggetto che non è chi guida un’automobile (ad es. il proprietario di una rete stradale) e pertanto una responsabilità ai sensi dell’art. 589 bis. Secondo la Cassazione, in tali casi, non si può avere una colpa aggravata nella violazione delle norme sulla circolazione stradale perché il riferimento generico all’art. 140 Codice della strada e soprattutto all’art. 14 Codice della strada laddove determina le competenze in ordine alla rete viaria non è sufficiente per integrare la colpa specifica. Pertanto il soggetto potrà essere imputato per omicidio colposo ai sensi dell’art. 589 c.p. ma non ai sensi dell’art. 589 bis c.p.

Benché l’assetto normativo attuale lo consenta poco, non si può tuttavia escludere che anche oggi in casi gravi si possa comunque configurare una responsabilità per dolo eventuale.

Il relatore ha evidenziato poi come le fattispecie di reato in esame vengano configurate come ipotesi autonome di reato laddove forse nel sistema penale non dovevano essere considerate come tali ma come circostanze aggravanti ad effetto speciale. L’argomento è discusso in dottrina e in giurisprudenza. Il relatore ritiene che si sia di fronte a delle circostanze aggravanti ad effetto speciale (in tal senso anche una sentenza del Gip del Tribunale di Milano del 2017).

Quanto all’art. 590 bis la cui formulazione attuale prevede una procedibilità d’ufficio, il relatore ha evidenziato che fino al 2016 in questi casi si era di fronte ad un fatto penalmente rilevante procedibile a querela con conseguente possibilità in sede dibattimentale di remissione a seguito del risarcimento del danno e anche di non approdo della questione nelle aule penali a fronte dell’intervento risarcitorio delle compagnie assicurative. L’attuale procedibilità d’ufficio porta con sé tutte le conseguenze del caso anche in ordine agli effetti di natura sanzionatoria accessoria per ciò che attiene alla sospensione e alla revoca della patente.

Il relatore ha esaminato poi alcune norme.

L’art. 589 bis incrimina “Chiunque cagioni per colpa la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale” e fa riferimento pertanto al concetto di colpa specifica.

Se colpa specifica c’è si rientra in questa fattispecie di reato, se non c’è si può ascrivere il comportamento a un’ipotesi di colpa generica e si rientra nell’ipotesi dell’art. 589 c.p. I successivi commi dell’art. 589 bis prevedono delle circostanze aggravanti che il legislatore ha voluto blindare per ciò che attiene al giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti nel senso che esse non sono da porsi in giudizio di equivalenza con le eventuali circostanze attenuanti che possano essere riconosciute. Pertanto si dovrà dar luogo all’aumento per la circostanza aggravante e una volta posta in essere la determinazione della sanzione si darà luogo alla diminuente.

Art. 186. Guida sotto l’influenza dell’alcool; art. 187. Guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti.

La giurisprudenza non si è espressa in maniera decisiva in merito alla possibilità di un concorso di violazioni tra l’art. 589 bis e la norma penale incriminatrice dell’art. 186 codice della strada di talché ancora non è chiaro se si abbia concorso di norme o reato complesso.

Quanto alle sanzioni amministrative accessorie della sospensione e della revoca della patente guardando alla formulazione delle norme si è osservato come la revoca della patente con impossibilità di nuovo conseguimento se non dopo il decorso di cinque anni dal momento dell’accertamento del reato sia prevista e per la fattispecie dell’omicidio stradale e per la fattispecie delle lesioni gravi o gravissime (a tal proposito sentenza della Corte Costituzionale del Febbraio 2019).

Rilevante in merito è stato l’intervento della Corte Costituzionale con sentenza n. 88 del 17 aprile 2019. Secondo la Corte Costituzionale la revoca della patente di guida è un’automatica conseguenza della condanna ex artt. 589 bis o 590 bis nelle sole ipotesi aggravate previste dal secondo e terzo comma cioè guida in stato di ebbrezza e guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Nelle altre ipotesi previste dal primo, quarto, quinto, sesto comma dell’art. 589 bis e dall’art. 590 bis il Giudice può valutare le circostanze del caso ed eventualmente applicare come sanzione amministrativa accessoria la sospensione della patente di guida.

Si sono presi in considerazione aspetti di natura processuale.

Art. 157 comma sesto c.p. Prescrizione. Tempo necessario a prescrivere.

Il termine di prescrizione raddoppia sia per il reato di cui all’art. 589 bis sia per il reato di cui all’articolo 590 bis.

Art. 406 comma 2 ter c.p.p. Proroga del termine.

La proroga del termine indagini preliminari nel caso di cui all’art. 589 bis è possibile ma non può essere concessa più di una volta.

La richiesta di rinvio a giudizio deve intervenire e deve essere depositata entro trenta giorni dalla chiusura delle indagini preliminari. I termini sono acceleratori perché questa tipologia di reati (artt. 589 bis e 590 bis) desta un particolare allarme sociale e ha quindi una corsia preferenziale in termini di celerità del processo.

Il decorso del tempo che va dal decreto che dispone il giudizio alla data del giudizio non può essere superiore a sessanta giorni.

Art. 359 bis c.p.p. Prelievo coattivo di campioni biologici su persone viventi.

Norma che prevede la possibilità di sottoporre un soggetto a prelievo ematico per valutare l’eventuale presenza nel suo sangue di sostanze stupefacenti o psicotrope o alcool.

A tal proposito vi sono due scuole di pensiero:

  • la Procura della Repubblica di Trento sostiene che la norma prevede qualcosa che è in violazione dei principi di libertà perché un soggetto non può essere costretto a subire un prelievo coattivo con la forza. Pertanto c’è perplessità sull’applicazione della norma;
  • la Procura di Udine sostiene invece che è perfettamente legittimo procedere coattivamente.

 

Lezione del 4 dicembre 2019. Profili di diritto penale del lavoro.

Avv. Marco Grotto.

La lezione odierna ha avuto ad oggetto alcune notazioni in materia di Diritto penale del lavoro operate dall’Avv. Marco Grotto. Tali notazioni hanno avuto come fulcro la normativa complementare contenuta nel D. lgs. N. 81 del 9 aprile 2008, c.d. Testo Unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

L’analisi della materia è stata svolta seguendo la tripartizione “posizione di garanzia – nesso causale – colpa” e mettendo via via in luce anche la trasversalità della stessa, posto che taluni istituti in essa rilevanti si ritrovano anche in altri settori dell’ordinamento: un esempio è l’istituto giuridico della delega di funzioni, che si ritrova anche in ambito societario.

All’interno del decreto si trova poi disciplinata anche l’estinzione di fattispecie contravvenzionali tramite un procedimento ingiunzionale, una ipotesi speciale di oblazione. L’ottica del legislatore non è tanto quella di sanzionare una carenza, quanto quella di rimuoverla quanto prima (effetto conformativo).

1) POSIZIONE DI GARANZIA

Il Codice penale italiano non fa espresso riferimento alla posizione di garanzia, ma la sua esistenza nell’ordinamento giuridico si ricava dalla clausola di equivalenza contenuta nell’articolo 40 comma 2 c.p., secondo il quale «Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo».

Con riferimento alla materia oggetto di lezione, si è evidenziato come a ricoprire tale posizione di garanzia sia il datore di lavoro, il quale deve farsi garante della sicurezza dei lavoratori e ciò in quanto vi è un soggetto (il garantito) che non è in grado di prendersi cura in prima persona dei propri beni giuridici, divenendo così necessario che a tutela degli stessi intervenga un altro soggetto (il garante).

In altri termini, il lavoratore può trovarsi nell’ambito del proprio lavoro esposto a un rischio, ma non sempre è in grado di tutelare da sé medesimo la propria incolumità, in quanto costretto a soggiacere alle direttive del datore di lavoro.

Nell’ambito del Diritto penale e diversamente da quanto avviene nel Diritto civile, per l’identificazione del soggetto garante si guarda a chi si occupa concretamente della gestione dell’attività produttiva, non rilevando chi sia il datore di lavoro da un punto di vista meramente formale. A tal proposito, si è rammentato l’esempio del subappalto di lavori nel caso in cui tutte le commissioni provengano dallo stesso committente e dunque ci si trovi di fronte, da un lato, a un soggetto riconosciuto a livello civilistico come datore di lavoro, dall’altro ad un soggetto che continuativamente e concretamente organizza l’attività lavorativa.

Nell’ambito della sicurezza sui luoghi di lavoro, abbiamo non solo un garante e un garantito, ma anche la presenza di una catena di soggetti a loro volta responsabili della sicurezza (dirigenti/preposti).

Nel caso in cui un lavoratore si infortunasse, quale soggetto sarebbe tenuto a risponderne?

Esiste una gradazione di responsabilità tra i soggetti deputati a garantire la sicurezza?

In relazione a tali quesiti, si può tendenzialmente affermare come tutti i soggetti siano tenuti a prevenire l’evento. Si è tuttavia affermata in quest’ambito una impostazione dottrinale e giurisprudenziale che fa riferimento al concetto della c.d. “gestione dell’area di rischio”, si è detto cioè che ogni soggetto è tenuto a rispondere per la propria area di rischio.

Nei fatti, se attribuissi la stessa responsabilità per l’infortunio al datore di lavoro e al capocantiere non agirei in modo equo, essendo diverso il potere giuridico e fattuale dei due soggetti in questione.

È dunque evidente come un preposto non sarà ritenuto responsabile di tutto, ma solo della condotta di quei soggetti che lavorano con lui, per i rischi che egli può gestire in quanto rientranti nella sua sfera di competenza. Egli sarà dunque ritenuto responsabile se un operaio non indosserà le scarpe antiinfortunistiche ma non se tali scarpe non sono state acquistate o non sono adeguate. In merito avrà al massimo un dovere di segnalazione al datore di lavoro della situazione.

Quale rischio si è dunque demandati a gestire? L’area di rischio che si è demandati a gestire varia in base alla posizione ricoperta, come nel caso della responsabilità medica, in questo senso, più salgo di livello e più si amplierà il confine della posizione di garanzia.

DELEGA DI FUNZIONI

Questo istituto è disciplinato dall’articolo 16 del D.lgs. n. 81 del 2008.

Guardando al testo di tale decreto, emerge come vi siano soggetti cui sono attribuiti plurimi compiti, in relazione alla cui violazione vengono irrogate altrettante sanzioni. Bisogna tuttavia pensare che la legge è stata scritta avendo quale riferimento la persona fisica, ma, con il crescere delle dimensioni produttive e con il dislocamento in varie sedi delle stesse, è risultato evidente come uno stesso soggetto persona fisica non possa seguire tutto personalmente e abbia dunque la necessità di delegare alcune funzioni ad un altro soggetto. Si è dunque normata la possibilità, attraverso uno strumento privatistico, una scrittura privata, di modificare il soggetto destinatario di funzioni e sanzioni penali. Nel Diritto commerciale questo istituto esisteva già da molto tempo, la novità è stata la sua introduzione nell’ordinamento penale.

2) NESSO CAUSALE

Se si parla di un infortunio, difficilmente sarà in discussione la causalità “naturalistica”.

Il problema si è posto con riferimento alle c.d. malattie professionali, dove non c’è una causa violenta, ma un accumulo di condotte causative di per sé irrilevanti che si sommano nel tempo (si pensi, ad esempio, al processo per quanto avvenuto nel petrolchimico di Porto Marghera).

In merito l’Avv. Grotto segnala il volume Giustizia e modernità di Federico Stella. Secondo l’autore, il Diritto penale non tollera una causalità c.d. “per categorie”, dovendosi portare avanti la concezione di una causalità definibile come “individuale”, per la quale va cioè dimostrato il nesso causale sussistente tra ciascun soggetto e ciascuna condotta.

La giurisprudenza di legittimità è ormai concorde nel ritenere, invece, che l’accertamento debba avere ad oggetto la categoria di eventi in relazione alla categoria di condotte che si sono tenute. Essa fa dunque riferimento proprio ad una causalità per classi di eventi.

3) COLPA

In questo ambito, si parla prevalentemente di responsabilità a titolo omissivo-colposo. L’elemento soggettivo che viene in rilievo è quello della responsabilità per colpa.

Abbiamo detto che la posizione di garanzia si ricava dal disposto dell’articolo 40 comma 2 del Codice penale, ma qual è il contenuto dell’obbligo giuridico di impedimento? La risposta si trova nel D. lgs. N. 81/2008 e in particolare nelle sue norme con contenuto prescrittivo.

Quello che va tenuto presente è che è quasi sempre una condotta omissiva (e non commissiva) del datore di lavoro a causare l’evento.

Per quanto attiene poi alla tradizionale distinzione tra colpa generica e colpa specifica, si è sottolineato come, tendenzialmente, ci si muova in quest’ultimo ambito. Il D. lgs. n. 81/2008 detta infatti delle regole precise, ma contiene anche delle regole più generiche, quali ad esempio l’obbligo di formare e addestrare il lavoratore, di cui è difficile individuare con precisione il contenuto.

CONSIDERAZIONI IN OTTICA PROCESSUALE-DIFENSIVA

A livello processuale, è noto come spetti al PM, nella formulazione del capo di imputazione, l’individuare quali norme si ritengono violate e quale sia la qualificazione giuridica del fatto.

La pubblica accusa ha infatti ampi poteri di indagine e al termine dell’attività investigativa dovrebbe saper formulare con precisione l’ipotesi accusatoria.

Può tuttavia porsi un problema, dato che il PM potrebbe arrivare al processo descrivendo/rappresentando una certa realtà fattuale, in merito alla quale potrebbero emergere in sede di istruttoria elementi diversi da quelli a cui si era fatto riferimento nel capo di imputazione (si vedano gli articoli 516,517 e 518 c.p.p.).

Nell’ambito delle regole di procedura, si prevede che nel caso in cui emerga durante il processo la commissione di un reato diverso da quello per cui si è imputati, vada a cadere l’accusa e al massimo al Giudice residui la possibilità di trasmettere il fascicolo al PM per fargli avere notizia di quanto incidentalmente emerso. Il thema probandum si definisce infatti in relaziona al capo di imputazione.

Ciò premesso, con riferimento ai reati colposi, spesso emergono durante il processo profili di colpa diversi e tangenti rispetto a quelli presenti nel capo di imputazione.  Nel nostro ordinamento vige un principio, sancito dall’articolo 521 del c.p.p., in base al quale vi deve essere correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza. Ci si deve però chiedere se tale principio valga anche con riferimento ai reati colposi e la risposta è no, non sussiste violazione dell’articolo 521 c.p.p. tutte le volte in cui, durante lo svolgimento di un processo, viene riscontrata la violazione di una norma cautelare.

Ovviamente questo compromette l’elaborazione della strategia difensiva, in quanto la sfera accusatoria diviene molto più ampia e quindi anche i mezzi istruttori vanno individuati in una ottica “cautelativa”.

Altra notazione dell’Avv. ha riguardato il fatto che il teste riferisce sui fatti, mentre sulle valutazioni riferisce il consulente tecnico. Può tuttavia accadere che il consulente tecnico venga sentito anche come teste e che la sua veste sia duplice, in quanto si rende necessario l’accertamento di circostanze particolarmente complesse e specifiche da un punto di vista tecnico.

Ricadute vi potrebbero poi essere in termini di attendibilità dei testi che si indicano (caso frequente è quello del datore di lavoro che, per difendersi, indica come teste il preposto, cioè un soggetto potenzialmente indagabile). In questo caso, data la minore attendibilità di un soggetto potenzialmente responsabile, si ritiene opportuno portare sempre della documentazione esterna a sostegno di quanto egli viene ad affermare in sede processuale. Vi è poi anche da chiedersi se un soggetto indagabile sia tenuto a dire il vero o possa invocare quanto previsto dall’articolo 384 c.p.

Teste del PM potrà poi essere anche l’ufficiale di Polizia Giudiziaria che potrà riferire circostanze fattuali di cui non ha avuto una conoscenza diretta, ma di cui gli hanno riferito o la cui conoscenza egli ha desunto da altri fatti (si veda l’articolo 195 comma 4 del c.p.p., avente ad oggetto la c.d. testimonianza indiretta).

Altro aspetto segnalato è che alcuni testimoni sono “qualificati”, sono cioè portatori di un sapere tecnico, motivo per il quale viene loro consentito anche di andare oltre la mera risposta al capitolo per fornire anche delle valutazioni. In questo senso, se si ritiene di voler contrastare le valutazioni offerte da questi testi, sarà opportuno valutare di farlo in sede di controesame dei testi del PM.

Da ultimo si è fatto un accenno all’eventuale contributo del lavoratore al proprio infortunio, cioè al c.d. comportamento abnorme del lavoratore. Ci si chiede se esso interrompa o meno il nesso causale. Ebbene, mentre questo argomento può avere un qualche pregio in una ottica civilistica, di richiesta di risarcimento del danno, in una ottica penalistica esso non serve a niente. La colpa del datore di lavoro o c’è o non c’è, salvo rari casi di condotte imprevedibili.

 

Lezione dell’11 dicembre 2019. Esercitazione pratica.

Avv. Francesca Zarantonello.

Traccia parere.lezione avv. Zarantonello

La traccia richiede di analizzare la posizione di due soggetti: la persona offesa e gli indagati.

  • Caio

In capo a Caio sono configurabili il reato di cui all’art. 609 bis c.p. Violenza sessuale e di cui all’art. 582, comma 1 c.p. Lesione personale.

Per quanto concerne le lesioni si distinguono:

  • lesioni lievissime (art. 582, comma 2 c.p.): la malattia non supera i venti giorni;
  • lesioni lievi: tra i ventuno e i quaranta giorni di malattia, come nel caso in esame;
  • lesioni gravi (art. 583, comma 1 c.p.):
  1. se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni”;
  2. se il fatto produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo”;
  • lesioni gravissime: (art. 583, comma 2 c.p.)

In merito al reato di violenza sessuale modifiche sono state introdotte dalla legge 69 del 2019 denominata Codice rosso. Questa legge ha aumentato la pena prevista per i reati di violenza sessuale (la pena non è più della reclusione da 5 a 10 anni ma da 6 a 12 anni).

Quanto alle circostanze nel caso di specie potrebbe essere riconosciuta quella di cui all’ultimo comma dell’art. 609 bis c.p.: “nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”. Secondo la giurisprudenza per capire se è configurabile questa attenuante si tratta di fare una valutazione complessiva del fatto tenendo conto di mezzi, modalità esecutive, grado di coartazione sulla vittima, condizioni fisiche e mentali della vittima, caratteristiche psicologiche così da poter ritenere che la libertà sessuale della persona offesa sia stata compressa in maniera non grave e che il danno arrecato alla stessa anche in termini psichici sia stato significativamente contenuto (sentenza n. 36486/2019).

Si può configurare anche l’aggravante della minorata difesa di cui all’art. 61, comma 1, n.5 c.p. “l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”.

Quanto all’aspetto della procedibilità per quanto riguarda le lesioni lievi la procedibilità è d’ufficio e per quanto concerne la violenza sessuale la procedibilità è a querela della persona offesa. Il regime di procedibilità della violenza sessuale è disciplinato dall’art. 609 septies: il termine per proporre la querela è di 12 mesi (così aumentato con l’entrata in vigore del Codice Rosso).

Il comma 3 dell’art. 609 septies evidenzia un’altra particolarità del regime di procedibilità di questo reato: l’irrevocabilità della querela proposta.

Il comma 4 dell’art. 609 septies indica invece i casi di procedibilità d’ufficio.

 

  • Sempronia

La sua condotta in astratto è penalmente rilevante perché ha dichiarato il falso di fronte alla Polizia Giudiziaria. Tuttavia non è punita da alcuna norma del codice penale (non dall’art. 371 bis c.p. inerente false informazioni al pubblico ministero). Più sentenze della Cassazione su questo punto hanno chiarito che per il principio di stretta legalità questo articolo riguarda esclusivamente coloro che vengono richiesti di fornire informazioni dal pubblico ministero e non anche dalla Polizia Giudiziaria nemmeno se questa opera su delega del pubblico ministero (sentenza n. 12832/2016 secondo cui non si configura il delitto di false informazioni al pubblico ministero nell’ipotesi in cui il mendacio sia recepito dalla Polizia Giudiziaria anche se delegata dal magistrato inquirente, diversamente si opererebbe un’interpretazione analogica vietata dall’ordinamento penale; sentenza n. 37306/2010 in cui la Cassazione ha ribadito che non integra il reato di false informazioni al pubblico ministero colui che rende false e reticenti dichiarazioni alla Polizia Giudiziaria in quanto il soggetto attivo del reato è solo colui che sia richiesto dal pubblico ministero di fornire informazioni e non anche chi sia richiesto di riferire circostanze utili dalla Polizia Giudiziaria ancorché su delega del pubblico ministero. Questa condotta semmai può integrare il reato di favoreggiamento personale di cui all’art. 378 c.p.).

La traccia evidenzia che Sempronia, sorella dell’indagato, non ha ricevuto gli avvisi di legge. Il riferimento è all’art. 199 c.p.p. rubricato Facoltà di astensione dei prossimi congiunti. Quando una persona viene chiamata a rendere testimonianza ed è prossimo congiunto dell’imputato il Giudice rivolge l’avviso della facoltà di astenersi dal rendere testimonianza. Ratio di questa norma è la tutela del sentimento familiare posto il conflitto che si determina in una persona chiamata a rendere testimonianza tra l’obbligo di rispondere e di dire la verità e la volontà di non danneggiare il prossimo congiunto. Questi avvisi valgono anche per le persone sentite in fase di indagini preliminari. Il fatto che Sempronia non abbia ricevuto gli avvisi di cui all’art. 199 c.p. rileva con riferimento all’esclusione della punibilità prevista dall’art. 384, comma 2 c.p. In merito, con pronuncia n. 416/1996, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 384, comma 2 c.p. nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni rese alla Polizia Giudiziaria nella fase delle indagini preliminari da persona che avrebbe dovuto essere avvertita della facoltà di astensione a norma dell’art. 199 c.p. Quindi, anche se nel caso di specie si tratta di persona che ha reso false informazioni alla Polizia Giudiziaria e non al pubblico ministero e quindi anche se la fattispecie di reato che si configura è il favoreggiamento e non il reato di false informazioni al pubblico ministero, si applica la causa di non punibilità che è prevista all’art. 384, comma 2 c.p. proprio in forza di questa pronuncia della Corte Costituzionale. La condotta di Sempronia pertanto è penalmente illecita ma non è punibile in forza dell’art. 384, comma 2 c.p.

 

Lezione del 18 dicembre 2019. Una questione pratica di procedura penale.

Avv. Prof. Emanuele Fragasso

La lezione tenuta dal Prof. Fragasso ha avuto come punto di partenza l’opera di Enrico Schiavo, L’avvocatura a Vicenza, (ri)stampato nel 2003.

Il libro ripercorre la storia dell’Avvocatura vicentina a partire dall’Alto Medioevo, soffermandosi sull’anno 1275, anno in cui venne fondato il Collegio dei Giuristi Vicentini, composto dai membri della più antica e scelta nobiltà vicentina. Tale collegio aveva al suo interno sia i giudici che i difensori, circostanza oggi impensabile. All’epoca all’esame di avvocato si accedeva interrogandosi sulla giurisprudenza pratica, sulle fattispecie concrete che venivano poi sussunte in quelle astratte.

Oggi si assiste alla sostituzione del diritto vivente al diritto delle leggi, dei codici.

Il Prof. Fragasso fa notare come, soprattutto nel Diritto penale, il legislatore debba essere molto preciso nel descrivere la fattispecie, in quanto in esso le virgole sono come sciabolate.

Il diritto vivente, invece, delega il Giudice a tradurre in termini legislativi un dictum indeterminato.

Oggi il giovane avvocato, nel preparare la causa, si limita a leggere le ultime massime della Suprema Corte di Cassazione, ma non legge le motivazioni delle sentenze e, soprattutto, non legge le norme.

Il giovane ha rinunciato ad usare la sua testa, non consulta la legge e non si misura con il problema dell’articolo 12 delle preleggi, relativo all’interpretazione del dettato normativo.

A pagina 13 del surriferito libro di Enrico Schiavo viene menzionata la c.d. “coscienza della legge” ed è questo l’obiettivo che i giovani devono riscoprire. Vi si elencano poi i requisiti che bisognava possedere per potersi iscrivere al Collegio dei Giuristi Vicentini: laurea all’università di Padova, mandato all’esercizio della professione, aiuto di c.d. sollecitatori, quasi gli odierni solicitors.

Il passato ricordato da Enrico Schiavo non è solamente un punto di riferimento mentale, è anche un punto di partenza per il discorso di oggi.

Ai penalisti vengono quindi illustrati dal Prof. Fragasso quelli che sono gli attuali pericoli per il processo penale.

Dov’è oggi il baricentro del processo penale? È la fase del giudizio?

No. Negli ultimi due secoli certo era ancora così, adesso non più.

In proposito viene richiamata l’opera di Foucault, Sorvegliare e punire del 1757. Se si leggono le prime sei pagine del libro si evince subito come, all’epoca, il centro del processo penale fosse considerato il momento dell’esecuzione della pena.

Poi, a partire dall’Ottocento e dal Novecento, si sviluppa e cresce il concetto di opinione pubblica.

Ai giorni nostri il baricentro è spostato verso la fase iniziale del processo penale, verso le indagini preliminari. Già da questo momento vengono infatti diffusi gli atti, le intercettazioni e le immagini, anche se oggetto di attività investigativa e quindi coperti da segreto ex articolo 329 c.p.p.

Forse a gennaio entrerà in vigore la Riforma Orlando con delle modifiche rilevanti in tema di intercettazioni telefoniche. Facciamo un esempio: si dice, sulla base di intercettazioni, che l’imputato Tizio sia stato a cena con un noto mafioso. Chi ci dice che la voce intercettata sia proprio quella di Tizio? La nuova legge consentirebbe, infatti, solo al difensore e al GIP di ascoltare le intercettazioni, magari in dialetto, e non allo stesso Tizio che potrebbe riconoscere la propria voce.

Dunque, il processo si è sempre più chiuso sulle indagini tecniche con i vari tipi di intercettazioni e con le c.d. indagini genetiche ex articolo 359 c.p.p. e con i c.d. pedinamenti informatici.

Ci si deve chiedere perché il PM diffonda le immagini o le intercettazioni prima del processo.

Le risposte che vengono date sono: per emozionare il pubblico e far nascere in esso una esigenza di giustizia, per far vedere la forza dello Stato, per screditare l’uomo, la persona sotto il profilo della proiezione sociale.

Perché viene fatto questo? Per dimostrare che l’organo inquirente è il potere, che è un potere forte, imparziale, che viene esercitato sulla base di elementi indiscutibili. Viene dunque legittimata la supremazia dell’accusa e sostenuta la fondatezza delle sue tesi. Questo serve a rassicurare l’opinione pubblica, il passo ulteriore è creare un “pregiudizio” nella c.d. mente vergine del Giudice.

Si consiglia l’opera di Gadamer, Verità e metodo, nella quale si dice che ogni traduzione è un po un tradimento: tradurre è tradire, perché vengono messe nella traduzione le precomprensioni di chi traduce.

Nella società mediatica in cui viviamo oggi, a condizionare l’agire dell’uomo sono i followers, si crea dunque un fenomeno di subordinazione. La paura è quella di venire esclusi, di vivere nell’isolamento. In questo senso, i Giudici sono convinti di aver esercitato la loro giurisdizione solo se scrivono una sentenza di condanna, altrimenti si sentono accusati dalla società di aver frustrato l’attività meritoria svolta dal PM. Il procedimento condiziona anche il Giudice.

Nel processo nazista, il Giudice urlava e aggrediva l’imputato perché altrimenti si sarebbe sentito infedele rispetto allo Stato del cui organico faceva parte.

Locke, a suo tempo, aveva individuato tre tipi di leggi:

-la legge divina

-la legge dello Stato

– la legge dell’opinione pubblica.

Rousseau, nell’Emilio, aveva indicato il pregiudizio come motore del mondo.

Da quanto abbiamo detto, emerge come egemone la figura del PM, che in questi tempi si affida troppo alla Polizia Giudiziaria, una patologia questa denunciata anche da Fazio.

Gli Avvocati non possono fare altro che recuperare la “coscienza della legge”, anche se oggi affiancata dal diritto vivente.

 

Lezione dell’8 gennaio 2020. Un caso pratico di diritto penale.

Avv. Gaetano Crisafi.

Il relatore ha svolto una delle tracce di diritto penale assegnate all’esame di stato rendendo preventivamente edotti i praticanti dei criteri di valutazione gli elaborati comunicati dal Ministero della Giustizia:

  • correttezza della forma grammaticale, sintattica ed ortografica e padronanza del lessico italiano giuridico;
  • chiarezza, logicità, completezza, sinteticità e non ridondanza nonché rigore metodologico delle esposizioni e delle argomentazioni giuridiche;
  • dimostrazione di concreta capacità di risolvere problemi giuridici anche attraverso riferimenti avanzati dalla dottrina e agli orientamenti giurisprudenziali. Il richiamo alle massime giurisprudenziali riportate nei codici annotati è consentito, tuttavia i relativi sintetici riferimenti testuali vanno adeguatamente virgolettati o comunque devono essere indicati gli estremi giurisprudenziali;
  • dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati strettamente pertinenti al quesito da risolvere.
  • dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
  • coerenza dell’elaborato con la traccia assegnata ed esauriente e pertinente indicazione dell’impianto normativo di riferimento;
  • in ordine alle conclusioni raggiunte, capacità di argomentare adeguatamente anche se in maniera difforme dall’indirizzo giurisprudenziale e/o dottrinale;
  • dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione per ciò che concerne specificamente l’atto giudiziario;
  • per quanto specificamente attiene alla prova scritta relativa alla redazione di un atto giudiziario in materia civile, penale o amministrativa, sussistenza nell’elaborato di tutti gli elementi essenziali previsti dall’ordinamento per la redazione dell’elaborato di cui alla specifica prova scritta.

Quanto alla traccia di diritto penale trattata il relatore ha individuato le condotte da analizzare:

  1. la ricezione e detenzione da parte di Caio di una foto avente natura pedopornografica;
  2. l’invio da parte di Caio a Mevia di una foto ritraente lo stesso Caio e l’amico Sempronio ubriachi e in slip.

 

Per ben strutturare la traccia occorreva:

  • fare un riferimento alla legge 38/2006 che ha ampliato e ben stabilito le norme contro la pedofilia e la pedopornografia anche a mezzo internet specificando che questa legge ha esteso la protezione accordata al minore fino al compimento del diciottesimo anno di età, ha disposto l’interdizione perpetua dall’attività nelle scuole e negli uffici o servizi per le persone condannate per questo tipo di reati e l’esclusione del patteggiamento per i reati di sfruttamento sessuale, ha individuato gli elementi costitutivi del reato di sfruttamento sessuale dei minori.
  • esaminare l’ 600 ter c.p. rubricato “Pornografia minorile” e l’art. 600 quater c.p. rubricato “Detenzione di materiale pornografico”.

La prima condotta:

Il settimo comma dell’articolo 600 ter c.p. è importante perché fornisce la definizione di pornografia minorile: “per pornografia minorile si intende ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto per scopi sessuali”.

La foto inviata da Mevia a Caio è quindi una foto di natura pedopornografica ma la norma cui è riconducibile la prima condotta di Caio non è l’art. 600 ter c.p. ma l’art. 600 quater c.p. poiché la Cassazione penale con sentenza n. 11675/2016 ha precisato che non si può configurare il delitto di cessione del materiale pornografico ai sensi dell’art. 600 ter c.p. nell’ipotesi del cd. autoscatto in quanto l’agente deve essere un soggetto altro e diverso rispetto al minore sfruttato (la Cassazione sul punto specifica inoltre che è irrilevante il consenso che il minore possa avere prestato all’altrui produzione del materiale o realizzazione degli spettacoli pornografici).

Nel caso in parola la fotografia è un autoscatto ed è stata realizzata e ceduta dalla minorenne consapevolmente e pertanto gli estremi della punibilità ai sensi dell’art. 600 ter c.p. non sembrano potersi rinvenire.

Svolgendo ulteriormente la traccia con riferimento all’art. 600 quater c.p., in relazione alla prima condotta di Caio, il relatore ha affermato che la fattispecie in parola richiede la consapevolezza da parte del soggetto agente di detenere materiale pornografico avente ad oggetto minori e pertanto questa fattispecie sembra essersi perfezionata.

La seconda condotta:

a tal proposito il relatore ha evidenziato che Sempronio ha proibito a Caio di diffondere la foto e quindi la problematica riguarda il trattamento più o meno legittimo dell’immagine di Sempronio, dato personale.

Il riferimento è all’art. 167 del Codice della Privacy, ipotesi delittuosa che può essere scongiurata posto che Sempronio dallo scambio di questa foto non ha tratto nocumento.

 

Lezione del 15 gennaio 2020. Un caso di diritto civile.

Avv. Diego Novello.

La lezione svoltasi in data 15 gennaio 2020 e tenuta dall’Avv. Diego Novello ha avuto ad oggetto l’analisi di due casi di Diritto civile proposti dall’Avvocato Diego Novello e risolti con la sua guida.

Prima di affrontare la risoluzione dei casi, il relatore ha ritenuto utile raccontare la sua esperienza all’Esame di Stato, dando dei consigli utili ai fini del suo superamento. Egli ha, in particolare, sottolineato come non si debba riporre troppa fiducia nelle massime giurisprudenziali, essendo preferibile il partire sempre dalle norme, sviluppando a partire da queste ultime il proprio ragionamento logico-giuridico. Ragionamento che dovrà essere quanto più lineare possibile, in modo che la Commissione possa rendersi agevolmente conto delle capacità del candidato.

Bisognerebbe poi evitare di confrontarsi troppo con le altre persone che stanno svolgendo l’esame, in quanto il confronto potrebbe risultare fuorviante e pregiudicare una coerente e serena stesura della traccia. In merito a quest’ultima, va poi tenuto presente come il parere sulla stessa sia molto diverso da quello redatto in studio per il cliente, e ciò in quanto non si hanno a disposizione tutte quelle informazioni concrete che al cliente possono e devono essere chieste. La traccia lascia volutamente aperti dei “bivi”, dei dubbi per vedere se il candidato sa ragionare e prendere un percorso logico che regge.

Il parere deve essere in grado di essere “semplice, ma esaustivo”, deve soddisfare tutte le attese e aspettative dei commissari, i quali svolgono attività professionali diverse (accademici, magistrati, avvocati) e dunque guardano ad esso ognuno con un punto di vista differente.

Ci sono scuole di pensiero, soprattutto al Sud, secondo cui è meglio presentare il parere sotto forma di lettera indirizzata al cliente. Si fa o non si fa? Non si fa. Il parere non deve essere “personalistico”, il particolarismo espone all’insuccesso.

Anche la scrittura riveste molta importanza ed è consigliato fare esercizio di buona scrittura, dal momento che il parere è olografo, mettendo in condizione i commissari di leggerlo senza difficoltà.

Vanno evitate espressioni come “Io penso” o “A mio giudizio”, non va mai usata la prima persona. Il parere deve risultare impersonale. Non devono essere presenti neppure segni di riconoscimento (es. schematizzazioni strane), i quali porterebbero a una sicura bocciatura.

L’Avv. Novello ha poi fatto notare come alcune tracce d’esame comincino con: «Premessi brevi cenni […]». Tale inciso viene messo perché la Commissione vuole rendersi conto se il candidato sa riassumere in poche righe un istituto. In questo caso bisogna evitare di essere troppo prolissi, anche in maniera sintetica si può fare un buon ragionamento logico. Bisogna attuare una sintesi costruttiva, senza però saltare dei passaggi che possano far pensare alla Commissione che il candidato non ha percepito un bivio.

I brocardi vanno adoperati solo se li si conosce bene e li usa senza errori di grammatica latina.

Un consiglio fondamentale è quello di prendersi il tempo per leggere bene la traccia e porsi tutte le domande necessarie: chi sono io? Di chi sono il difensore? Qual è la fattispecie dedotta?

Per quanto attiene ai contenuti, come va introdotto il parere?

Il parere va iniziato prendendo per mano sin da subito la commissione con frasi come: «Al fine di esaminare compiutamente la traccia dedotta, risulta utile premettere alcuni brevi cenni sul contratto di compravendita…».

La trattazione deve risultare fluida, in quanto i salti logici potrebbero ingenerare confusione nella Commissione.

A livello contenutistico, il ragionamento giuridico deve necessariamente essere portato sino al punto in cui si apre la scelta tra più possibilità, dal momento che la traccia lascia volutamente che sorgano dei dubbi. La lacuna in una traccia a volte non serve a niente e a volte va risolta in maniera critica, quindi meglio argomentare sulle possibilità che si aprono, anche solo per spiegare perché non le si ritiene valide e magari affrontandole per prime, facendo poi capire per quale soluzione si propende.

Dal momento che non è sufficiente riportare la massima giurisprudenziale, ma alla base serve un ragionamento critico, sarebbe utile il provare ad approcciare le tracce senza utilizzare i codici commentati per individuare con la propria testa la soluzione.

La trattazione deve poi proseguire con l’indicazione dei rimedi esperibili, tenendo presente che un parere ben fatto è un parere che arriva naturalmente alle conclusioni. Se si tratta di un caso in cui la mediazione è obbligatoria, meglio farvi riferimento.

Venendo alla risoluzione dei casi, l’Avv. Novello ha sottolineato come, quando ci si trova a dover prendere posizione su una tesi di controparte, sarebbe meglio mantenere sempre una propria indipendenza di pensiero. Va poi tenuto presente che, nel sistema del Diritto civile, il regime delle eccezioni è una scienza esatta e spesso basta una sola eccezione a dirimere tutta la controversia.

Si sono dunque affrontati due casi pratici:

a) il primo caso, basato sulla sentenza del 30 ottobre 2015 del Tribunale di Venezia, scritta dallo stesso Avv. Novello durante il suo tirocinio formativo, aveva ad oggetto un testamento con cui un’anziana e ricca signora disponeva dei suoi beni lasciandoli ai nipoti, dopo aver ampiamente beneficiato i figli mentre era in vita.

Nello specifico, l’anziana aveva due figli: Primo e Seconda. Primo aveva, a sua volta, una sola figlia, mentre Seconda aveva due figli.

Alla figlia di Primo la nonna lascia come legato la nuda proprietà di un appartamento, il cui usufrutto viene dato alla madre, nuora dell’anziana. Lascia poi anche Euro 150.000.

Ai figli di Seconda, la nonna lascia in legato due appartamenti in piena proprietà.

Nomina poi tutti e tre i nipoti eredi universali sul residuo del patrimonio (1/4 alla figlia di Primo e ¼ agli altri due nipoti).

I figli Primo e Seconda fanno acquiescenza al testamento e rinunciano all’azione di riduzione.

Dopo la morte della nonna, la figlia di Primo scopre che la signora non ha nel conto i € 150.000,00, che le ha lasciato in legato, ma solo 50.000,00  e agisce in riduzione contro i suoi stessi cugini per ottenere una più equa distribuzione dei beni.

Per risolvere il caso, va tenuto presente che la figlia di Primo è erede testamentaria e non legittimaria e che il genitore ha rinunciato all’azione di riduzione. L’acquiescenza e la rinuncia ad agire in riduzione fanno sì che Primo e Seconda non diventino mai eredi della loro madre. Bisogna dunque limitarsi a guardare a quella che era la volontà testamentaria della defunta. Va in particolare applicato l’articolo 654 c.c. avente ad oggetto il legato di cosa solo parzialmente presente nell’asse, in base al quale i € 50.000,00 presenti nel conto vanno alla figlia di Primo.

b) per risolvere la traccia che ci è stata consegnata, invece, andava fatto riferimento all’articolo 590 del Codice civile, avente ad oggetto la conferma ed esecuzione volontaria di disposizioni testamentarie nulle. Tale norma prevede che la nullità della disposizione testamentaria, da qualunque causa dipenda, non possa essere fatta valere da chi, conoscendola, abbia, dopo la morte del testatore, confermato la disposizione o dato ad essa volontaria esecuzione.

 

Lezione del 22 gennaio 2020. Un caso di diritto civile.

Avv. Luca Siviero.

Si pubblica il materiale didattico utile per la lezione:

Caso per scuola forense.avv. Siviero

La questione giuridica centrale del caso proposto dal relatore è il trattamento degli inadempimenti contrapposti.

  • IL CASO

L’immobile che Alfa ha preso in locazione da Beta presenta dei problemi che Alfa segnala al locatore.

Tra le obbligazioni fondamentali del locatore vi è quella di garantire il pacifico godimento della cosa secondo la destinazione contrattualmente pattuita e secondo canoni di normale utilizzo. Nel momento in cui si presenta un vizio il locatore deve fare in modo che la cosa sia riparata in modo tale da ripristinarne il normale godimento e consentirne una fruizione che corrisponda alla contropartita che il locatore incassa attraverso il canone.

Quando riceve la segnalazione Beta risponde ad Alfa che le infiltrazioni di acqua rappresentano la caratteristica tipica dell’immobile dovuta alla collocazione urbana infelice e che con un sistema di deumidificazione (obbligo che eccede il normale uso della cosa) il problema verrà meno.

Alfa lo fa e ritiene che questo non risolva il problema e sollecitando l’intervento del locatore capisce che manca la disponibilità ad intervenire. Valuta pertanto di ridurre il proprio canone di locazione nella misura di 1/3 perché stima che questi disagi provochino una diminuzione del godimento dell’immobile pari a circa 1/3 del valore del canone. Questa è una valutazione di carattere quantitativo che Alfa fa in piena autonomia. Alfa cioè riduce autonomamente il canone dovuto a Beta valendosi illegittimamente dell’eccezione di inadempimento di cui all’articolo 1460 c.c. secondo il quale “Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto”. La riduzione del corrispettivo non può avvenire in autonomia ma deve essere stimata da un Magistrato all’esito di un giudizio secondo quanto stabilito dall’art. 1578, comma 1, c.c. rubricato  Vizi della cosa locata:Se al momento della consegna la cosa locata è affetta da vizi che ne diminuiscono in modo apprezzabile l’idoneità all’uso pattuito, il conduttore può domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, salvo che si tratti di vizi da lui conosciuti o facilmente riconoscibili.” Secondo questa norma il conduttore ha due alternative:

  • risoluzione del contratto;
  • riduzione del canone proporzionale alla riduzione del godimento.

Va precisato che l’art. 1460 c.c. trova applicazione se una delle prestazioni viene completamente meno. Secondo la Cassazione l’eccezione di inadempimento è ben posta quando si è in presenza di una totale privazione del godimento o di una privazione talmente intensa da poter essere considerata totale mentre l’autoriduzione del canone proporzionale alla misura del godimento non totale non é legittima. Il conduttore deve corrispondere il canone per intero ed agire per la sua riduzione che deve essere stimata da un Magistrato.

La reazione che la condotta di Alfa provoca in Beta è l’intimazione di sfratto per morosità. La locatrice Beta lamenta il mancato pagamento integrale del canone che giustifica la risoluzione del contratto per inadempimento. Alfa che riceve l’intimazione si oppone e propone domanda riconvenzionale di risoluzione del contratto per inadempimento della locatrice.

Le domande di Alfa e Beta mirano al medesimo risultato giuridico e cioè la cessazione degli effetti del contratto di locazione. Ognuno dei contraenti contesta al proprio avversario l’inadempimento e ognuno chiede la risoluzione per inadempimento del contratto.

In merito alla questione giuridica degli inadempimenti contrapposti rileva una sentenza della Corte di Cassazione secondo la quale: Nel deliberare la fondatezza della domanda di accertamento dell’inadempimento di uno dei contraenti il Giudice deve tenere conto, anche in difetto della formale eccezione di cui all’articolo 1460 c.c., delle difese con cui la parte contro la quale la domanda viene proposta opponga a sua volta l’inadempienza dell’altra”. “Qualora ricorra un caso di inadempienze reciproche ai fini della pronuncia della risoluzione per inadempimento è necessario far luogo ad un giudizio di comparazione in ordine al comportamento di ambo le parti al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi e alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti perché l’inadempimento deve essere addebitato esclusivamente al contraente che con il proprio comportamento colpevole prevalente abbia alterato il nesso di reciprocità che lega le obbligazioni assunte con il contratto dando causa al giustificato inadempimento dell’altra parte”.

Il Magistrato è quindi chiamato a stabilire quale sia l’inadempimento maggiore e originante la catena di inadempimenti. A seconda della risposta a questa domanda addebiterà esclusivamente l’inadempimento ad una delle parti. Conseguentemente una domanda verrà rigettata e l’altra accolta con rilevanti conseguenze in merito al profilo del risarcimento del danno. La fonte dell’obbligazione risarcitoria è l’inadempimento del contratto. Pertanto solo il soggetto che ottiene l’accertamento dell’inadempimento ottiene l’accertamento della fonte dell’obbligazione risarcitoria. Se la domanda di accertamento dell’inadempimento viene rigettata perché di importanza minore non si ottiene l’accertamento del titolo della fonte dell’obbligazione risarcitoria che quindi non nasce. Conseguentemente un solo contraente potrà invocare oltre alla risoluzione del contratto anche il risarcimento del danno mentre l’altro contraente pur avendo subito un danno da inadempimento non avrà diritto al risarcimento. La norma che sostiene questo ragionamento e che collega il precedente della Cassazione alla fattispecie concreta è l’art. 1175 c.c. rubricato Comportamento secondo correttezza: Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza”.

  • COMPLICAZIONE PROCESSUALE

Nel caso in esame Alfa ha proposto domanda riconvenzionale per inadempimento di Beta ma ha dimenticato la richiesta di differimento dell’udienza. Il Giudice ha pertanto dichiarato inammissibile la domanda riconvenzionale di Alfa. La decisione è corretta nel merito. Il problema riguarda la forma giuridica del provvedimento giudiziale adottato: è stata emessa un’ordinanza mentre la forma con cui deve essere statuita l’inammissibilità della domanda è la sentenza. Dato questo provvedimento giusto nella sostanza ma sbagliato nella forma si pongono due alternative a fronte delle quali bisogna operare la scelta strategica migliore:

  1. impugnare l’ordinanza in Corte d’Appello (si possono impugnare non solo le sentenze ma anche i provvedimenti che avendo forma di ordinanza hanno sostanziale contenuto di sentenza);
  2. rifare la causa.
  3. Impugnazione dell’ordinanza in Corte d’Appello.
  • impugnare immediatamente l’ordinanza;
  • formulare una riserva di appello e appellare l’ordinanza quando verrà emessa sentenza definitiva.

Il giudizio di appello non è un processo immediato e non ci sono garanzie di certezza circa l’esito del giudizio di impugnazione. Se la Corte d’Appello accoglie l’impugnazione perché la forma del provvedimento è sbagliata e conferma il giudizio di inammissibilità il problema non viene risolto.

  1. Rifare la causa.

Si notifica cioè un ricorso in materia locatizia in cui si pone la domanda dichiarata inammissibile dal Giudice con ordinanza e cioè che sia risolto il contratto di locazione per inadempimento di Beta e nelle conclusioni, in via preliminare, si chiede la riunione dei procedimenti per ragioni di connessione. (Art. 274 c.p.c. Riunione di procedimenti relativi a cause connesse: Se più procedimenti relativi a cause connesse pendono davanti allo stesso giudice, questi, anche d’ufficio, può disporne la riunione”).

Nel caso di specie il Giudice ha riunito i due procedimenti e ha considerato ferme le decadenze maturate nel Giudizio già pendente. Ha cioè respinto le domande di cui alla seconda causa perché volte ad aggirare preclusioni già maturate. La sentenza è ingiusta. Secondo quanto evidenziato dalla Cassazione civile, sezione lavoro, settembre 2016, n. 1812: La decadenza prevista dall’art. 418 c.p.c. per mancata proposizione dell’istanza di fissazione di nuova udienza relativamente alla domanda riconvenzionale non esclude che quest’ultima, seppure dichiarata inammissibile, possa essere riproposta in un altro giudizio sia per la natura processuale e non sostanziale, sia per la natura autonoma della domanda in questione, diretta non ad ottenere il rigetto della pretesa avversaria ma una diversa pronuncia giurisdizionale a sé favorevole”. La dichiarazione di inammissibilità di una domanda è una pronuncia con la quale il Giudice si spoglia del potere di decidere il merito della controversia e cioè un provvedimento atto al giudicato formale ma non atto al giudicato sostanziale. Nel caso in esame non si è persa una decadenza sostanziale cioè un termine per un’impugnazione, ma un termine processuale che rende inammissibile la domanda e che impedisce al Giudice di valutarne il merito. Se alla decidibilità di una domanda osta la violazione di una norma di carattere procedimentale si ha diritto ad un giudicato sostanziale su di essa. Pertanto si può riproporre la domanda, far riunire i procedimenti e il Giudice deve decidere su tutti i procedimenti così riuniti.

 

Lezione del 29 gennaio 2020. La responsabilità medica.

Avv. Maria Gabriella Di Pentima.

Preliminarmente, la relatrice ha ritenuto utile ripercorrere i punti che si sarebbero affrontati durante la lezione:

-analisi dell’articolo 6 della Legge Gelli-Bianco con riferimento a quanto previsto dall’articolo 2236 del Codice civile e dall’articolo 3 della Legge Balduzzi;

-elementi processuali in materia di responsabilità medica;

-analisi delle c.d. “sentenze gemelle di San Martino, pronunciate nel novembre 2019.

 

La relatrice ha poi premesso come, nell’ambito della responsabilità medica, l’avvocato non possa esimersi dall’entrare anche nel merito delle singole patologie, al fine di comprenderne la natura, e porre domande su di esse domande al CTP per verificare se vi è stata effettivamente una responsabilità, se vi è un nesso di causa tra la condotta del medico e l’evento e così via. Essere parte di un percorso lesivo non significa, infatti, avere necessariamente una responsabilità.

L’analisi da qui condotta ha avuto ad oggetto, innanzitutto, il disposto dell’articolo 2236 del Codice civile, secondo cui:

“Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”.

L’articolo 2236 c.c. crea dunque un esimente di colpa per la c.d. “colpa lieve”, in quanto la punibilità viene prevista solo nei casi in cui vi sia dolo o colpa grave, ed ha come riferimento quella colpa che sia dovuta ad imperizia.

Si è data poi lettura dell’articolo 3 della Legge Balduzzi, il quale al primo comma così stabiliva:

“L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento

della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche

accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per

colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di  cui

all’articolo  2043  del  codice  civile.  Il giudice,  anche   nella

determinazione del risarcimento del danno,  tiene  debitamente  conto

della condotta di cui al primo periodo”.

 

Tale articolo ha introdotto un concetto, quello di linee guida, poi richiamato anche dall’articolo 6 della Legge Gelli-Bianco, prevedendo come il professionista che si attiene alle linee guida e alle c.d. buone pratiche (accreditate) non sia chiamato a rispondere penalmente per colpa lieve.

La relatrice ci ha segnalato come molte pronunce giurisprudenziali abbiano, negli ultimi anni, fatto riferimento proprio al richiamo che viene operato all’interno di questo articolo all’articolo 2043 del Codice civile e ci ha poi evidenziato come il Giudice, nella valutazione del risarcimento del danno, faccia proprio riferimento alla condotta di cui parla il primo comma dell’articolo 3.

Si è poi preso in considerazione il testo dell’articolo 6 della Legge Gelli-Bianco:

“Responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria

 

  1. Dopo l’articolo 590-quinquies del Codice penale è inserito il

seguente:

«Art. 590-sexies (Responsabilità colposa per  morte  o  lesioni

personali in ambito sanitario). – Se i fatti di cui agli articoli 589

e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si

applicano le pene ivi previste salvo quanto  disposto  dal  secondo

comma.

Qualora l’evento si  sia  verificato  a  causa  di  imperizia,  la

punibilità è esclusa quando  sono  rispettate  le  raccomandazioni

previste dalle linee guida come definite e  pubblicate  ai  sensi  di

legge  ovvero,   in   mancanza   di   queste,   le   buone   pratiche

clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni  previste  dalle

predette linee guida risultino adeguate alle  specificità  del  caso

concreto».

  1. All’articolo 3 del decreto-legge 13 settembre  2012,  n.  158,

convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012,  n.  189,

il comma 1 è abrogato”.

 

Tale articolo si lega a quanto disposto dagli articoli 589 e 590 del Codice penale, introducendo l’articolo 590 sexies, in cui le pene sono le stesse previste normalmente per le soprarichiamate fattispecie di reato. In tale norma viene previsto come, qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, l’esercente la professione sanitaria non sia punibile qualora abbia rispettato le linee guida o le buone pratiche accreditate e queste si rivelino quelle corrette da seguire per il caso specifico che si è presentato.

La relatrice ha poi esposto il caso, deciso con sentenza del Tribunale di Parma del 18 dicembre 2018, di una giovane donna colpita da ischemia cerebrale non diagnosticata dal personale medico di PS e riportante gravi lesioni permanenti. Si è trattato di uno dei primi casi di applicazione dell’articolo 590 sexies c.p. in cui si è esclusa la colpa del sanitario per avere lo stesso seguito correttamente le linee guida (il cui processo di accreditamento deve ancora essere molto implementato) e le prassi dell’ospedale previste per casi di questo tipo (esami medici, visita di altri specialisti etc.). In tale ospedale, infatti, si applicava una check list in base alla quale si accedeva allo step successivo, e dunque al successivo esame clinico, solamente se i precedenti avevano dato esito positivo e nel caso della giovane donna così non era stato. Il PM aveva chiesto, in questo caso, assoluzione per insufficienza di prove, ma il Giudice ha invece ritenuto il medico “non punibile”.

Si è poi analizzata la Sentenza della Cassazione Penale n. 8770 del 22 febbraio 2018.

Tale sentenza parte dall’esame dell’articolo 2236 c.c., analizza le previsioni della Legge Balduzzi e arriva sino alla Legge Gelli-Bianco, graduando le varie previsioni normative.

In merito al disposto dell’articolo 3 della Legge Balduzzi, essa sottolinea come l’imperizia sia la stessa a cui fa riferimento l’articolo 2236 del Codice civile, mentre l’articolo 6 della Legge Gelli introduce una causa di non punibilità sulla responsabilità colposa per morte o lesioni personali da parte di esercenti la professione sanitaria.

E se le linee guida non sono state formulate? Se non c’è una regolamentazione, una prassi da seguire? Il medico a cosa si deve aggrappare? Nel caso in cui le linee guida non ci siano perché non formulate, il sanitario dovrà adeguare le sue conoscenze e la sua azione al caso concreto.

Ci si è chiesti, poi, di che tipo sia la responsabilità a cui vanno incontro la struttura sanitaria e l’operatore e si è visto come si tratti di responsabilità di tipo contrattuale per la struttura sanitaria e extracontrattuale per l’operatore (in questo caso l’onere probatorio ricade dunque sul paziente), a meno che quest’ultimo non abbia instaurato con il paziente un rapporto contrattuale diretto.

Da ultimo, si sono passate in rassegna alcune delle c.d. Sentenze di San Martino, 10 sentenze depositate dalla Corte di Cassazione nel 2019 e con cui la stessa ha offerto numerosi spunti di riflessione per una organica rielaborazione del quadro normativo in materia di responsabilità medico-sanitaria e risarcimento del danno, all’esito della ormai assimilata entrata in vigore della cd. legge “Gelli-Bianco” (l. n. 24/2017).

La prima sentenza considerata è stata la n. 28985/2019, riguardante i presupposti di risarcibilità del danno da violazione del c.d. “consenso informato”. Il caso era quello di una paziente che aveva chiesto il risarcimento per aver sviluppato una patologia (mielopatia dorsale da radioterapia), quale conseguenza delle eccessive dosi di irradiazione della terapia radiante somministrata per trattare altra malattia di base (linfoma di Hodgking).

La Corte d’Appello di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato l’Istituto Oncologico al risarcimento dei danni, rilevando che non era stata fornita la prova liberatoria di cui all’art. 1218 c.c., ed anzi che sussisteva prova della colpa professionale dei Sanitari, per violazione del dovere di prudenza, che avrebbe imposto un dosaggio di irradiazione inferiore, in considerazione delle condizioni di salute della paziente. La Struttura Sanitaria ha proposto ricorso per Cassazione, poi rigettato.

Prima di questa sentenza, la giurisprudenza sul tema inquadrava il consenso come possibilità per l’individuo di autodeterminarsi. Le uniche prestazioni mediche obbligatorie sono infatti i vaccini, il TSO e gli interventi salvifici eseguiti in urgenza. La violazione del consenso, prima di questa sentenza, veniva risarcita come a voce a sé di danno, mentre adesso non costituisce una voce autonoma di risarcibilità, ma va considerata insieme all’intervento complessivo.

La sentenza n. 28986/2019 ha poi riguardato i criteri per il calcolo del danno differenziale in caso di lesioni concorrenti. Se ci sono più lesioni su un soggetto e alcune di queste sono risalenti, risarcibile è solo il danno differenziale.

La sentenza n. 28987/2019 ha riguardato il tema della ripartizione dell’onere risarcitorio tra struttura sanitaria e operatore, determinando chi risponde e in che misura dal momento che la struttura non risponde per tutto e a prescindere, di solito comunque la responsabilità è ripartita al 50%, a meno che non ci sia una responsabilità del medico grave o straordinaria.

Le successive sentenze hanno riguardato la c.d. personalizzazione del risarcimento e il c.d. danno da morte o diritto al risarcimento del danno per perdita del rapporto parentale.

Si è poi presa in considerazione, per quanto riguarda gli aspetti processuali, la previsione dell’articolo 8 della Legge Gelli-Bianco:

“Tentativo obbligatorio di conciliazione

  1. Chi intende esercitare un’azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilita’ sanitaria e’ tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell’articolo 696-bis del codice di procedura civile dinanzi al giudice competente.
  2. La presentazione del ricorso di cui al comma 1 costituisce condizione di procedibilita’ della domanda di risarcimento. E’ fatta salva la possibilita’ di esperire in alternativa il procedimento di mediazione ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28. In tali casi non trova invece applicazione l’articolo 3 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162. L’improcedibilita’ deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice, ove rilevi che il procedimento di cui all’articolo 696-bis del codice di procedura civile non e’ stato espletato ovvero che e’ iniziato ma non si e’ concluso, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dinanzi a se’ dell’istanza di consulenza tecnica in via preventiva ovvero di completamento del procedimento.
  3. Ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio, e’ depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all’articolo 702-bis del codice di procedura civile. In tal caso il giudice fissa l’udienza di comparizione delle parti; si applicano gli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile.
  4. La partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva di cui al presente articolo, effettuato secondo il disposto dell’articolo 15 della presente legge, e’ obbligatoria per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione di cui all’articolo 10, che hanno l’obbligo di formulare l’offerta di risarcimento del danno ovvero comunicare i motivi per cui ritengono di non formularla. In caso di sentenza a favore del danneggiato, quando l’impresa di assicurazione non ha formulato l’offerta di risarcimento nell’ambito del procedimento di consulenza tecnica preventiva di cui ai commi precedenti, il giudice trasmette copia della sentenza all’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) per gli adempimenti di propria competenza. In caso di mancata partecipazione, il giudice, con il provvedimento che definisce il giudizio, condanna le parti che non hanno partecipato al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall’esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che e’ comparsa alla conciliazione”.

 

Lezione del 5 febbraio 2020. Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

Avv. Diego Manente

Sulla base della legge delega n. 155 del 2017 è stato emanato il d.lgs. n. 14 del 2019 intitolato Codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza che non è ancora entrato in vigore.

Questa riforma sostituisce l’attuale architrave della disciplina concorsuale cioè la legge fallimentare (il Regio Decreto n. 267 del 1942) che è stata approvata in concomitanza con l’approvazione del codice civile e che è rimasta in vigore salvo un’importante opera di novellazione che si è fatta a partire dal 2005 – 2007.

La legge fallimentare originaria ha cambiato volto. Essa era calata nel sistema fascista che aveva una visione tipicamente sanzionatoria. Il fallimento, procedura principe prevista dalla legge, era lo strumento per espellere dal mercato l’imprenditore incapace che aveva fatto fallire la sua impresa, una punizione inflitta al soggetto che non aveva nessuna finalità recuperatoria dell’impresa.

Con la novellazione del 2005-2007 si è privilegiata l’opera di recupero dell’impresa, si è incentivato notevolmente il ricorso a strumenti di composizione negoziale della crisi (es. concordato preventivo), si sono introdotti istituti nuovi quali l’accordo di ristrutturazione dei debiti e il piano di risanamento, si è mantenuto lo strumento della liquidazione coatta amministrativa che riguarda particolari categorie di imprese in una dimensione che non aveva più connotazione sanzionatoria ma poneva al centro il recupero al mercato, nei limiti del possibile, delle aziende e imprese ancorché in fase di dissesto.

Il sistema di procedure attualmente esistenti in Italia che servono a regolare le situazioni di crisi e di insolvenza essenzialmente dell’impresa ma non solo può essere raffigurato con tre cerchi concentrici di dimensione più ampia.

PRIMO CERCHIO

Al centro del primo cerchio si colloca il Regio Decreto n. 267 del 1942 cioè la legge fallimentare. Questo primo contenitore regola fallimento, concordato preventivo, accordo di ristrutturazione dei debiti, piano del consumatore, liquidazione coatta amministrativa destinandoli all’imprenditore commerciale di non ridotte dimensioni.

 

SECONDO CERCHIO

Il secondo cerchio, all’esterno del primo, può essere rappresentato da altre procedure che regolano le insolvenze.

Presupposto oggettivo per l’applicazione di questi istituti è l’insolvenza come definita dall’articolo 5 cioè l’incapacità di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni che si manifesta con inadempimenti o con altri fattori esteriori. Accanto a questa nozione il legislatore ha introdotto anche la nozione di crisi: la situazione di preinsolvenza.

Gli imprenditori di maggiori dimensioni sono assoggettati ad una disciplina costituita dalla legge sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza (il d.lgs. n. 270 del 1999 che si applica a tutte le imprese che abbiano un certo grado dimensionale caratterizzato da due elementi: oltre 250 dipendenti e l’elemento delle passività di particolare importanza.

Ma ci sono anche imprenditori di dimensioni ancora maggiori. Per questi imprenditori, in occasione di uno dei più grandi dissesti che abbiano caratterizzato la storia dell’impresa italiana (dissesto Parmalat), ci si è resi conto che anche lo strumento dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese era insufficiente. Resisi conto che non era possibile gestire la crisi con gli strumenti vigenti è stato emanato il decreto legge poi convertito nella legge n. 39 del 2004 con i seguenti presupposti applicativi: più di 500 dipendenti e un monte debiti molto consistente (questa legge è stata poi applicata anche ad altre situazioni di crisi ad es. nel caso dell’Alitalia che è stata assoggettata a questa procedure tre volte).

Dal punto di vista giuridico tutte queste procedure aprono il concorso dei creditori. Con questa espressione delineata nell’art. 52 dell’attuale legge fallimentare si intende che tutti i creditori di un determinato soggetto sono chiamati a soddisfarsi in un’unica procedura caratterizzata dall’universalità intesa sia in senso soggettivo che in senso oggettivo: tutti i creditori anteriori alla dichiarazione del fallimento e tutti i beni del debitore.

Si riteneva che l’imprenditore commerciale fosse l’unico rispetto al quale la situazione di crisi o di insolvenza potesse giustificare apertura di procedure di questo tipo. La novella del 2005 ha creato alcuni meccanismi che consentono di scardinare questo meccanismo.

 

Il fallimento è una procedura che nasce nel basso medioevo italiano quando c’erano i comuni e i mercanti. Gli Statuti dei mercanti avevano creato questo strumento che all’epoca si chiamava bancarotta perché il banco su cui il mercante esercitava la mercatura, in caso insolvenza, veniva rotto dal podestà della corporazione.

L’Italia, che all’epoca creava gli strumenti giuridici, ad un certo punto perde centralità nella loro elaborazione e in Francia, ai tempi di Luigi XIV, viene emanata l’ordonnance du commerce che tratta anche del fallimento non dell’imprenditore commerciale ma del commerciante riservandolo ancora una volta ai commercianti anche nel momento in cui si passa da questa ordonnance al codice (sia civile che code de commerce).

In Italia, che si ispira alla legislazione francese, nei due codici che si sono susseguiti (Codice del 1865 e del 1882), viene mantenuta questa tradizione così come viene mantenuta nel 1942 anche se si discuteva se fosse giusto riservare solo ai commercianti questo strumento.

Si arriva alla riforma del 2005-2007 che ancora una volta mantiene questa prerogativa: soltanto i commercianti sono assoggettabili alle procedure concorsuali. Ne consegue che tutti i non commercianti (dal piccolo imprenditore all’imprenditore agricolo, ai comitati, alla persona fisica non imprenditore) vedevano regolata la loro insolvenza con unico strumento che era l’esecuzione individuale.

Con la riforma del 2005-2007 viene introdotto per la prima volta l’istituto dell’esdebitazione. Nella situazione ante novella del 2005-2007 se si chiudeva il fallimento senza soddisfazione integrale di tutti i creditori del fallito, il fallito non era liberato dalle residue obbligazioni ma rimaneva vincolato ad esse anche dopo la chiusura del fallimento fino al termine della prescrizione. Il soggetto che falliva diventava sostanzialmente un latitante economico, non poteva presentarsi sul mercato. Qualsiasi risorsa avesse acquisito l’avrebbe perduta perché i creditori rimasti insoddisfatti nella procedura fallimentare avrebbero agito per recuperare i loro crediti qualora egli avesse acquisito dei beni. Con l’istituto dell’esdebitazione invece le persone fisiche assoggettate a fallimento cioè l’imprenditore individuale ma anche i soci di società dichiarate fallite per i quali c’è l’estensione automatica del fallimento, una volta chiuso il fallimento, in presenza di particolari requisiti di meritevolezza, sono liberate dalle obbligazioni che non hanno adempiuto. Questa situazione creava disparità di trattamento perché succedeva che quando un soggetto fallibile entrava in procedura alla fine veniva liberato dalle proprie obbligazioni ma un soggetto non fallibile non potendo entrare in procedura non sarebbe mai stato liberato dalle proprie obbligazioni.

Il verificarsi della grande crisi del 2008, l’arretramento welfare, il persistente e sempre maggiore indebitamento hanno reso necessario il terzo intervento ad hoc.

TERZO CERCHIO

Il terzo cerchio cioè la legge sul sovraindebitamento, la n. 3 del 2012, immediatamente fallita nella sua applicazione, ma che è stata rimodellata nell’ottobre dello stesso anno, ha introdotto nel nostro sistema tre procedure di tipo concorsuale per regolare la crisi e l’insolvenza che si chiamano sovraindebitamento pur fotografando gli stessi concetti.

  • il piano del consumatore destinato solo al consumatore;
  • l’ accordo di composizione;
  • la liquidazione del patrimonio del debitore che evoca uno strumento simile al fallimento dell’impresa commerciale.

Tali procedure sono caratterizzate dall’essere procedure di tipo negoziale sia pure sotto il controllo del Giudice e con l’ausilio dell’organismo di composizione della crisi da sovraindebitamento istituito presso i consigli di ordine o presso gli enti pubblici.

Le procedure di carattere non negoziale (fallimento, liquidazione coatta, amministrazione straordinaria) sono procedure che presuppongono l’insolvenza e possono essere attivate sia su richiesta del debitore sia su richiesta dei creditori o del PM perché l’insolvenza è un fenomeno contagioso. L’insolvenza dell’imprenditore si può riflettere su altri soggetti: dipendenti, banche, fornitori, clienti i quali potrebbero diventare a loro volta insolventi con un effetto a catena.

Viceversa le procedure negoziali (concordato preventivo, accordo di ristrutturazione dei debiti e tutte le procedure di sovraindebitamento) sono rimesse esclusivamente all’iniziativa del debitore. Nessuno può costringere l’imprenditore a seguire la strada del concordato preventivo. È una sua scelta.

È così si chiude il cerchio dell’insolvenza.

RIFORMA DELLA DISCIPLINA DELLA CRISI E DELL’INSOLVENZA.

Il fenomeno della crisi dell’insolvenza è un fenomeno dinamico che è dettato dalle regole dell’economia, della finanza, della concorrenza. L’insolvenza è un male perché porta alla disgregazione dei valori aziendali (disgregazione dell’impresa, perdita di posti di lavoro, perdita di know how, perdita di avviamento). Ci si è resi conto che la struttura attuale della legge per quanto completa e per quanto novellata nel 2005 non rispondeva ad un’esigenza basilare riconosciuta anche dagli organismi internazionali (Uncitral, regolamento dell’Unione Europea n. 848 del 2015, raccomandazione dell’Unione Europea n. 135 del 2014 e direttiva n. 1023 del 2019): un’emersione anticipata della crisi (che non necessariamente nasce da fattori interni) perché non degeneri in insolvenza. La crisi non è un fenomeno da vivere in termini negativi. Il termine crisi deriva dal greco e significa rivedere, ridiscutere per migliorare. È un fenomeno che non fa parte della patologia dell’impresa ma della sua fisiologia.

L’obiettivo che la legge delega e il codice della crisi e dell’insolvenza si prefiggono è enunciato all’art. 1 Il presente codice disciplina le situazioni di crisi o insolvenza del debitore sia esso consumatore, professionista ovvero imprenditore che eserciti anche non a fini di lucro un’attività commerciale, artigiana, agricola operando quale persona fisica, persona giuridica o altro ente collettivo, gruppo di imprese o società pubblica con esclusione dello Stato e egli enti pubblici”.

Il legislatore del Codice della crisi e dell’insolvenza vuole ricomprendere in questo codice tutti gli strumenti destinati a regolare l’insolvenza di tutti i possibili debitori, siano essi imprenditori, imprenditori commerciali, non imprenditori.

All’art. 2 sono indicate le due definizioni di:

  • insolvenza relativamente alla quale il legislatore ripete l’art. 5 della legge fallimentare: Lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori i quali dimostrano che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”;
  • crisi: nozione introdotta per la prima volta e definita come “Lo stato di difficoltà economico finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”.

Quanto alla nozione di fallimento sarà lecito parlarne fino al 14 agosto 2020. Il temine fallito sarà sostituito con il termine debitore e il termine fallimento con liquidazione giudiziale.

LIMITI DEL CODICE.

  • Primo limite.

Questo codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza nasce monco perché ridisciplina la legge fallimentare e la legge n. 3 del 2012 lasciando fuori l’amministrazione straordinaria delle grandi e grandissime imprese cioè il d.lgs. del 1999 e la legge Parmalat. È una scelta politica. Il conflitto tra Giudici che volevano assorbire nella loro area anche queste procedure e Ministero che non voleva essere espropriato del controllo delle grandi crisi industriali ha portato alla scelta dello stralcio della riforma di questa parte e il suo incanalamento in un binario morto.

  • Secondo limite.

Questo codice riforma la disciplina civilistica ma non quella penalistica. Questo aspetto è un limite perché è impensabile che un apparato di queste dimensioni sia retto da una disciplina che al di là di qualche modifica risale ancora ai modelli del 1942.

INTERESSI NELLA MATERIA FALLIMENTARE.

La materia fallimentare è una materia in cui si intersecano interessi di più soggetti molto differenti tra loro: quello dell’imprenditore a mantenere la sua impresa, quello del ceto bancario che ha finanziato l’impresa la cui insolvenza potrebbe riverberarsi sulla tenuta dei conti delle banche, quello dei lavoratori i cui interessi sono a rischio e di tutti coloro che gravitano attorno all’impresa.

Le misure finalizzate a prevenire e rimediare le situazioni di crisi sono sempre state osteggiate da due categorie: i dottori commercialisti e dall’ambiente industriale. La riforma è partita quando ci si è resi conto che l’ambiente industriale non è composto solo da debitori ma anche da imprese creditrici che hanno interesse ad una disciplina idonea a risolvere crisi di insolvenza.

In un tempo caratterizzato dalla decodificazione è stato creato un codice (che evoca un concetto di sistematicità e di autosufficienza) all’interno del quale sono compendiati tutti gli strumenti di regolazione della crisi. 

Il legislatore ha dimenticato la tipica clausola abituale contenuta nei d.lgs.: la clausola di revisione (il legislatore sulla base della delega potrà intervenire senza necessità di altra delega entro un anno due). Essa è stata introdotta con la legge n. 20 del 2019 che consente dopo due anni (fino al 15 agosto 2022) di intervenire con questi correttivi sempre sulla base delle delega.

MISURE DI PREVENZIONE, ALLERTA E DI COMPOSIZIONE DELLA CRISI.

Architrave della disciplina è l’introduzione delle misure di allerta e di composizione della crisi.

Mentre la situazione di insolvenza giustifica l’intervento pubblico e quindi dei terzi, nel caso della crisi tutto è rimesso alla scelta dell’imprenditore al quale nessuno può imporre di seguire un determinato percorso. Il legislatore ha capito che questa area grigia impedisce il risanamento delle imprese e che bisogna intercettare il prima possibile la crisi. Questo in Italia non è così semplice per tante ragioni: perché l’impresa italiana è essenzialmente medio piccola (il che vuol dire avere apparati interni e procedure di controllo interne magari non eccellenti), perché l’impresa italiana è familiare (i componenti anche a livello societario sono appartenenti ad una famiglia governata da un capostipite) e per una reticenza culturale ad approcciare la dimensione del fallimento, dell’insolvenza e della crisi e la tendenza a viverla come un marchio di infamia.

  • Primo presidio

Il legislatore cerca di superare questo stato di fatto introducendo nel sistema misure di prevenzione agli articoli 12 e seguenti del codice per agevolare l’emersione anticipata della crisi. Introduce l’obbligo di adeguati assetti organizzativi amministrativi e contabili dell’impresa:

  • organizzativi: organigramma;
  • amministrativi: procedimentalizzazione delle decisioni;
  • contabili: piani finanziari ecc.

Questa è la caratteristica che porta a definire il codice della crisi e dell’impresa non solo un codice dell’insolvenza ma anche un codice dell’impresa poiché la fase della crisi non è patologia ma fisiologia dell’impresa che va curata come una malattia.

  • Secondo presidio.

Il secondo presidio che il legislatore del codice della crisi introduce è dato dagli strumenti di allerta: il legislatore prevede a carico di soggetti qualificati (Inps, Agenzia delle entrate e Agente della riscossione) l’obbligo di segnalare anzitutto agli organi societari e all’Ocri quando un livello di sovraindebitamento nelle fasi di accertamento e riscossione supera una determinata soglia. Era opportuno intervenire su un segmento che nell’esperienza comune è quello più frequentato dall’ imprenditore in crisi o in stato di insolvenza: non pagare l’istituto di previdenza, non pagare le tasse, non pagare le cartelle esattoriali e altro perché i tempi di accertamento del non pagamento sono tali da consentire all’imprenditore di usare il denaro per pagare altri creditori.

Nell’intervenire su questo il legislatore ha tuttavia coniato le norme su livelli di indebitamento tali che quando si manifestano c’è già un’insolvenza conclamata.

Questi strumenti di allerta esterna vanno abbinati a quelli di allerta interna con una forte responsabilizzazione degli organi di controllo che devono segnalare all’imprenditore determinate situazioni di crisi.

OCRI.

Organismo per la composizione della crisi d’impresa. Sarà istituto presso le camere di commercio e costituito da un componente nominato dal Presidente del Tribunale, uno nominato dal Presidente della Camera di commercio, uno nominato dall’imprenditore da un elenco di appartenenti alla categoria. Questi tre soggetti saranno chiamati a sentire l’imprenditore su cosa intende fare di fronte alle situazioni di crisi che sono state segnalate. Se l’imprenditore rimane inerte l’Ocri lo segnala al PM e il PM potrà chiedere la liquidazione giudiziale.

L’Ocri diventa l’accompagnatore dell’imprenditore nel suo percorso di sistemazione della crisi. Questo dovrebbe far sì che l’imprenditore possa usare una sede neutra. Ma il fatto che l’epilogo del rivolgersi a questo organismo potrebbe anche essere la segnalazione al PM renderà inefficiente la disciplina.

 

Lezione del 12 febbraio 2020. La separazione personale.

Avv. Paolo Doria.

Dal momento che la separazione viene spesso vissuta come un dramma familiare, all’avvocato che se ne occupa si consiglia sempre di agire mettendo in pratica l’etica della sobrietà, della pacatezza e dello spirito di conciliazione. Il processo, mai come in questo caso, costituisce per le parti una pena: mai come nel diritto di famiglia, infatti, questa affermazione trova il riconoscimento della sua fondatezza.

Il patrocinato vive, durante la separazione, un autentico dramma interiore e assume dunque le vesti di un vero e proprio assistito. La crisi familiare rappresenta il fallimento di un progetto di vita che coinvolge inevitabilmente tutta la famiglia, i parenti, gli amici e soprattutto i minori.

Nel processo di separazione giudiziale vi sono sempre due parti soccombenti. Le udienze, gli atti, le deposizioni testimoniali creano sempre grande sofferenza interiore. Questa situazione processuale e umana richiede all’avvocato di agire secondo un’etica della sobrietà e della mediazione. L’avvocato deve essere un autentico promotore di legalità effettiva nei confronti delle parti e deve adoperarsi, se possibile, per addivenire ad una soluzione stragiudiziale.

Come fa l’avvocato a farsi promotore della legalità effettiva?

Ricorrendo, ad esempio, alla separazione di tipo consensuale o alla conciliazione/ricomposizione della coppia nei casi in cui questa via sia percorribile. L’avvocato deve trovare una soluzione alternativa alla causa, anche ricorrendo all’istituto della mediazione familiare previsto dall’articolo 337 octies c.p.c., il quale tuttavia non costituisce una condizione di procedibilità del processo.

Le possibili strade della separazione dei coniugi

In base al dispositivo dell’art. 151 Codice civile, «La separazione può essere chiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all’educazione della prole».

A tal proposito, va rammentato come nel nostro ordinamento sussista un vero e proprio diritto alla separazione.

Qualche tempo fa, vi era chi dubitava che fosse necessaria l’assistenza di un patrocinio per il procedimento di separazione, Adesso le cose non sono più così, tranne in un caso.

Qual è la differenza tra il contenzioso e la volontaria giurisdizione?

La volontaria giurisdizione consiste in una attività giurisdizionale che, diversamente dal contenzioso, non si chiude con una sentenza, ma con una ordinanza o un decreto e nella quale non vi è una vera e propria contrapposizione delle parti.

Vi può essere un unico difensore per entrambe le parti di un procedimento di separazione personale? Si, ma va tenuto presente il fatto che vi possono essere anche dei profili di incompatibilità. In questi casi, infatti, difensore viene a conoscenza di fatti che riguardano entrambe le parti e, nel caso in cui fra queste vi sia una contrapposizione, non può difenderle entrambe, altrimenti rischia di commettere un illecito disciplinare.

La separazione può essere fatta sia nella forma classica che nella forma innovata dal D.l. n. 132/2014.

1) La separazione consensuale prevede che tra le parti si raggiunga un accordo sugli aspetti essenziali della stessa. Come prevede l’articolo 158 c.c., «La separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l’omologazione del giudice. Quando l’accordo dei coniugi relativamente all’affidamento e al mantenimento dei figli è in contrasto con l’interesse di questi il giudice riconvoca i coniugi indicando ad essi le modificazioni da adottare nell’interesse dei figli e, in caso di inidonea soluzione, può rifiutare allo stato l’omologazione». L’articolo 711 c.p.c. stabilisce invece che «Nel caso di separazione consensuale previsto nell’art. 158 del Codice civile, il presidente, su ricorso di entrambi i coniugi, deve sentirli nel giorno da lui stabilito e procurare di conciliarli nel modo indicato nell’articolo 708. Se il ricorso è presentato da uno solo dei coniugi, si applica l’articolo 706 ultimo comma. Se la conciliazione non riesce, si dà atto nel processo verbale del consenso dei coniugi alla separazione e delle condizioni riguardanti i coniugi stessi e la prole.
La separazione consensuale acquista efficacia con la omologazione del tribunale, il quale provvede in camera di consiglio su relazione del presidente. Le condizioni della separazione consensuale sono modificabili a norma dell’articolo precedente
».

2) La separazione giudiziale si avvia con il ricorso di cui all’articolo 706 c.p.c. e porta ad un contenzioso che si conclude con una sentenza.

«La domanda di separazione personale si propone al tribunale del luogo in cui il coniuge convenuto ha residenza o domicilio, con ricorso contenente l’esposizione dei fatti sui quali la domanda è fondata. Qualora il coniuge convenuto sia residente all’estero, o risulti irreperibile, la domanda si propone al tribunale del luogo di residenza o di domicilio del ricorrente, e, se anche questi è residente all’estero, a qualunque tribunale della Repubblica. Il presidente, nei cinque giorni successivi al deposito in cancelleria, fissa con decreto la data dell’udienza di comparizione dei coniugi davanti a sé, che deve essere tenuta entro novanta giorni dal deposito del ricorso, il termine per la notificazione del ricorso e del decreto, ed il termine entro cui il coniuge convenuto può depositare memoria difensiva e documenti. Al ricorso e alla memoria difensiva sono allegate le ultime dichiarazioni dei redditi presentate».

 

3) La separazione tramite negoziazione assistita da avvocati è prevista dall’articolo 6 del D.l. n. 132/2014). Due ipotesi:

  1. a) presenza di figli minori o maggiorenni non economicamente sufficienti o incapaci o portatori di handicap grave à l’accordo raggiunto dai coniugi va trasmesso al Procuratore della Repubblica che deve valutare se esso risponde o meno all’interesse dei figli. Va poi trasmesso da quest’ultimo al Presidente del Tribunale che fissa il termine per la comparizione delle parti.
  2. b) se non ci sono figli à il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale competente concede l’autorizzazione.

Gli avvocati sono obbligati al tentativo di conciliazione e ad una informativa adeguata sulla mediazione.

4) La separazione tramite accordo da concludersi davanti al Sindaco del Comune è prevista dall’articolo 12 del D.l. n. 13272014) à Tale non disposizione non si applica se vi sono figli minori o maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave o economicamente non autosufficienti. L’ufficiale di Stato civile riceve da ciascuna delle parti la dichiarazione della volontà di separarsi, viene poi compilato un atto contenente l’accordo delle parti in merito alla separazione.

L’affidamento dei figli

La l. n. 54/2006 ha invertito il rapporto di regola ed eccezione tra il previgente affidamento congiunto ed esclusivo. È stato valorizzato il diritto alla bigenitorialità del minore, ovvero il diritto ad un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori e anche con i nonni.

L’articolo 337 ter del Codice civile prevede: «Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale».

La legge vuole che i giudici nel decidere le condizioni di separazione tengano conto dell’esclusivo interesse morale e materiale del figlio, per consentirgli di superare, per quello che sia possibile, il trauma dello scioglimento della famiglia.

Il criterio prioritario della valutazione è quello dell’affidamento ad entrambi i genitori. La vecchia potestà è stata sostituita dalla “responsabilità genitoriale” (vedi articolo 337 bis c.p.c.).

L’affidamento condiviso richiede che vengano determinati i tempi e le modalità della permanenza del figlio presso ciascun genitore.

 

 

Lezione del 19 febbraio 2020. Il risarcimento punitivo.

Avv. Prof. Mauro Tescaro.

Si pubblica il materiale didattico utile per la lezione.

Prof. Avv. Tescaro. Vicenza 19 febbraio 2020